giovedì 3 aprile 2014

La Notte del castigo di Dio - prima parte





La Notte del Castigo di Dio


Scendendo a valle dalle sorgenti alle quote alte dove esso nasce, nel comune di Coazze, in Alta Val Sangone, il Sangonetto, lou Sangouņ ‘d l’Adrèch, cresce e s’ingrossa senza grandi affluenti per l’apporto di ruscelli e sorgenti che emergono qua e là dalle fenditure vuote della montagna.     
Un tempo i montanari di là, che per raggiungere case e poderi si spostavano tra i versanti di mezzogiorno e mezzanotte, nei periodi dell’anno in cui il torrente non era troppo impetuoso per lo scioglimento delle nevi in quota o per i violenti temporali estivi, lo attraversavano nei punti più prossimi di guado e solo nei casi in cui non era possibile ricorrevano a ponti improvvisati, allungando di molto il tragitto abituale.     
Prima che gli alberi tornassero a riconquistarsi gli spazi strappati in epoche passate dagli uomini all’ordine antico della natura, lassù dalla mulattiera che da la Bërghinìri porta a la  Dindlìri e prosegue per li Piouņ sulla destra orografica del Sangonetto, occhi ben disposti ad ammirare i grandi spazi, potevano godere dell’ampia visuale della valle. Di là potevano perdersi osservando da lou Priët fin giù al Ròtche di Mùri, in un alternarsi di massi di ogni dimensione levigati dall’erosione dei millenni e piccole anse di sabbia argentata depositata dalle piene lungo il letto del torrente. Pareva quasi che artisti giganti di epoche lontane avessero buttato per gioco un lungo nastro serpeggiante su li Piëņ ‘d Sangouņ: così era per la gente del luogo la distesa di prati dei Piani del Sangonetto.  
A metà percorso della mulattiera, una piccola costruzione di pietra, utilizzata dai margari delle case vicine per tenere in fresco il latte e la panna, testimoniava il passato antico di quelle borgate. Un tempo sul pavimento à lòse del piccolo casale, che ha resistito alle violenze della natura, veniva fatta scorrere l’acqua incanalata da una sorgente poco lontana: l’ideale per rilasciare frescura al locale e lavare i recipienti utilizzati nella lavorazione del latte.  
Allora non c’erano alberi tra le distese di prati sulle rive del Sangonetto. Su di esse fazzoletti di terra coltivati a grano segale e patate parevano messi là ad arte per rompere la quieta monotonia del grande tappeto verde che nei mesi estivi dominava la vallata.   
Non era facile tenere in ordine quel grande giardino perennemente in bilico tra il frutto delle umane fatiche e il sempre incombente caos della natura. Ogni anno occorreva ordinare la rete di piccoli canali, che nella stagione secca portavano l’acqua delle sorgenti nei prati riarsi e non mollare mai dopo i grandi temporali di risistemare massi e sabbia per regimare il corso del torrente ed evitare l’erosione delle sponde.            
Poco sopra l’abitato dou Priët, un piccolo ponte, al quale era stato dato il nome del borgo, costituiva da tempi immemori il passaggio naturale per i margari in cammino verso le grange dou Palëi, l‘Arp ‘d Dijavëņ e le borgate dell’Inverso: la Dindlìri, la Bërghinìri, Bësàs, Pitchèire, sëņ Dijan Antougni, Preservì e su fino aou Tchardijour.
Arroccato a una roccia poco distante dal ponticello a mezzogiorno, lou muliņ ‘d Gàbrie, il mulino di Gabriele, dal nome forse del proprietario che l’aveva costruito, era una piccola costruzione tirata su in tempi lontani per dare farina da pane ai montanari delle borgate.
La casa, dalle pareti esterne intonacate di bianco, era costituita da un porticato con due locali, uno dei quali ospitava le macine e i macchinari del mulino e l’altro fungeva da deposito per granaglie e farine.
Su un ripiano sotto il porticato antistante la costruzione, i montanari che arrivavano là, liberavano le loro spalle martoriate dalle gerle cariche di granaglie da macinare e tornavano a gravarsele di lì a poco con sacchi di crusca e farina da portar via.
Mentre con gesti lenti e antichi pescavano tabacco forte da la blàga, la tabacchiera e arrotolavano sigarette buone a far buttare dai polmoni litanie croniche di tosse, in quelle brevi e preziose pause di riposo essi vivevano momenti importanti di socialità conversando col mugnaio e altri montanari arrivati là dalle borgate vicine.                  
Pulsava di cristiani e animali la montagna in quegli anni e al mulino c’era molto lavoro. Per non far mancare farina da pane nelle case spruzzate come macchie di neve sui crinali in primavera, al mugnaio, à lou mulinèi, toccava spesso lavorare anche la notte.   
Oltre il cortile erboso del mulino, in estate ingentilito qua e là dai colori vivaci dei rosai curati dalle donne, si snodava la mulattiera per le borgate alte, al di là della quale un piccolo orto si interponeva a un fazzoletto di prato che finiva dritto nel torrente sottostante.      
Come lou muliņ ‘d Gàbrie, anche gli altri prati intorno ai Piani del Sangonetto furono spazzati come fuscelli dalla piena nella Notte del Castigo di Dio di oltre mezzo secolo fa.
Quella sera una voragine immensa si aprì dal cielo e come un diluvio universale, che nessuno ricordava, si rovesciò da essa un mare d’acqua sulla valle.     
Nelle case della montagna non dormì nessuno quella notte. Nelle stalle al lume basso delle candele furono in molti a pregare il Padreterno, la Madonna e tutti i Santi affinché insieme ponessero fine a quel finimondo da far paura e in una stalla dou piëņ Ahtèiva, sul versante a mezzogiorno, anche Martché, che a recitar Rosari si annoiava a morte, invitò la Dijenia a iniziarne uno…

Fine Prima Parte

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